INTERVISTE – Marco Belinelli, capitano della Segafredo Virtus Bologna, in un’intervista rilasciata a “Vogue Italia”, ha parlato della carriera, della paura del ritiro e del momento difficile vissuto con coach Sergio Scariolo.
Una vita per il basket e la paura del ritiro: “Ho paura di smettere. Vorrei che non succedesse mai, perché dopo non so cosa farò. L’unica cosa che mi stressa è la fretta: vivo in una bolla di tranquillità, basta che dentro ci sia una palla. Le mie vecchie foto? Mi mettono malinconia, mi fanno pensare che si avvicina il momento di ritirarsi. Mi fanno pensare che non riesco più a saltare in alto come quel ragazzino magrissimo e sbarbato di provincia. Ma penso anche che quel cinno (equivalente bolognese di “pischello” o “guaglione”, ndr) non l’ho mai tradito. Già alle elementari dicevo di voler fare il giocatore di basket e ho sempre fatto le scelte giuste per riuscirci. Guardavo le videocassette delle partite insieme a mio fratello, ammiravo con lui quei fenomeni come Larry Bird e Michael Jordan. E ci sono finito in mezzo anch’io, a pestare quelle stesse tavole di parquet. Mi sono fatto un mazzo così ogni santo giorno della mia vita, ogni anno per trovarmi un posto dove giocare tra quei mostri là”
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Il momento difficile vissuto con coach Sergio Scariolo: “Le scelte vanno rispettate, ma stare fuori è fastidioso. Mi sfogavo a casa, ero sempre incazzato. Poi l’allenatore nuovo, Luca Banchi, mi ha dato fiducia e mi sono rimesso in gioco per far vedere ancora il talento e l’amore per questo sport che ho. Dietro c’è tanto lavoro, l’alimentazione giusta e la famiglia. Prima le sconfitte duravano giorni, molto più delle vittorie: passavo a volte anche mesi a rimuginarci, ossessionato, incapace di pensare ad altro. Ora è impossibile, pure volendo (le due figlie sono abbastanza impegnative, ndr).”
Il rapporto con gli USA: “Gli Stati Uniti mi hanno dato tanto, mi hanno fatto conoscere tante persone, mi hanno aperto. Ci sono stato bene, anche se ogni volta che venivo via da Bologna piangevo. All’inizio ero muto proprio. Non mi sentivo in diritto di parlare, finché non ho vinto. Dicevano che non avessi il fisico né il carattere, che non ero abbastanza aggressivo. Non ho risposto a parole, solo coi fatti sul campo. Mi piace far cambiare idea a chi mi massacra, perché fondamentalmente, allo stesso tempo, non me ne frega niente: all’inizio sì, me la facevo un po’ sotto, ma poi ho imparato ad annullarmi, in campo mi astraggo, entro in un’altra dimensione, sento solo quel rumore della retina quando la palla entra che mi fa innamorare come quando ero bambino, e così faccio l’ultimo tiro della partita, quello decisivo, nella Nba o nella finale scudetto italiana come se fossi da solo al campetto, uguale. La classe è far sembrare facili le cose difficili. Per prendersi quei tiri importanti serve coraggio e io ne ho, tanto che la palla vada dentro o fuori chi vuole dirti bravo ti dice bravo a prescindere e chi vuole dirti che fai schifo nemmeno cambierà idea”.
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La grande paura di Marco Belinelli: “La mia più grande paura – prosegue Belinelli – è morire perché ho paura di lasciar sole le mie figlie. A volte in trasferta mi ritrovo di notte, in una stanza d’albergo, e in quei momenti di vuoto a pensare niente mi chiedo se c’è davvero qualcosa dopo. Sono un credente non praticante, da classico italiano. Penso di essere un buon padre, ma chi può dirlo? Saprò dare loro la giusta educazione? Sapranno comportarsi bene? Con chi usciranno? Chi frequenteranno? I social, poi, sono pericolosi, se non ci si sa stare dentro nel modo giusto: noi eravamo sereni e felici con molto meno. Ero negli Usa nel periodo del Black Lives Matter e ho visto che i campioni dello sport là si fanno molti meno problemi a esporsi pubblicamente, a prendere posizione. I giocatori hanno molta più visibilità e alle spalle un sindacato forte. Il problema del razzismo lì è più grande. Qui dovremmo fare qualcosa di più per i diritti delle donne, perché il mondo sia più giusto e sicuro per loro”.
Foto: virtus.it
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